di Roberto Dall’Acqua

Mar­ti­na Gal­let­ta è un’at­tri­ce so­praf­fi­na e ver­sa­ti­le. At­trat­ta, fin da gio­va­nis­si­ma, da quel­l’u­ni­ver­so chia­ma­to spet­ta­co­lo ha stu­dia­to, pri­ma, al Con­ser­va­to­rio e, poi, alla Scuo­la d’A­tre Dram­ma­ti­ca Pao­lo Gras­si. 

Per es­se­re sem­pre al­l’al­tez­za non bi­so­gna mai smet­te­re di stu­dia­re. Sta scri­ven­do il suo se­con­do li­bro, un ro­man­zo sto­ri­co am­bien­ta­to nel 1938.

– Come di­ven­ta at­tri­ce Mar­ti­na Gal­let­ta?

Stu­dian­do come una paz­za. Temo che uno dei gran­di equi­vo­ci di que­sto pe­rio­do sto­ri­co sia che, per es­se­re ar­ti­sta, ba­sti ave­re una “fac­cia”, op­pu­re una per­so­na­li­tà spic­ca­ta, o par­te­ci­pa­re ad un so­cial.
Per­so­nal­men­te ho ini­zia­to a stu­dia­re da gio­va­nis­si­ma, pri­ma al Con­ser­va­to­rio e poi alla Scuo­la d’Ar­te Dram­ma­ti­ca Pao­lo Gras­si. E que­sto non mi ha fat­ta sen­ti­re pron­ta, anzi: più im­pa­ri, più com­pren­di quan­to an­co­ra devi im­pa­ra­re.
Fare espe­rien­za, ne­gli anni, mi ha for­gia­ta come per­so­na e come ar­ti­sta. Cre­do che in que­sto la­vo­ro (per­ché, ri­cor­dia­mo­ce­lo, è un la­vo­ro, e an­che mas­sa­cran­te), sia fon­da­men­ta­le la cul­tu­ra, pri­ma di tut­to. Mi sono in­na­mo­ra­ta di Ce­chov, di Sha­ske­spea­re, di Ib­sen, ma ho ama­to pro­fon­da­men­te an­che il Tea­tro con­tem­po­ra­neo: im­paz­zi­sco per le ope­re di Ra­fael Spre­gel­burd, per esem­pio.

– << Tan­to as­sur­do e fu­ga­ce è il no­stro pas­sag­gio per il mon­do…>>. L’at­to del re­ci­ta­re può “fer­ma­re” il tem­po?

Non cre­do che pos­sa fer­mar­lo, ma che pos­sa ren­der­lo eter­no. For­se è una dif­fe­ren­za sot­ti­le, ma la tro­vo fon­da­men­ta­le. Non si esce mai “in­co­lu­mi “, dal­l’ar­te, per­ché ri­chie­de ne­ces­sa­ria­men­te il no­stro con­tri­bu­to fi­si­co e men­ta­le, da qual­sia­si par­te del pal­co o del­lo scher­mo ci si tro­vi.

– Rac­con­ta­ci le tue espe­rien­ze nel mon­do del­lo spet­ta­co­lo.

Ho fat­to ve­ra­men­te di tut­to. Da Aran­cia Mec­ca­ni­ca a De­sde­mo­na nel­l’O­tel­lo, da Neil La­Bu­te a al Gio­ca­to­re di Do­stoe­v­sk­ji.
Ho avu­to il gran­dis­si­mo ono­re di in­ter­pre­ta­re Giu­liet­ta Ma­si­na sul gran­de scher­mo, al fian­co di Edoar­do Pe­sce, con la re­gia di Luca Man­fre­di. Da die­ci anni re­ci­to in Di­gni­tà Au­to­no­me di Pro­sti­tu­zio­ne, ge­nia­le for­mat di Lu­cia­no Mel­chion­na e Bet­ta Cian­chi­ni. Ho re­ci­ta­to con Ro­ber­ta Tor­re, pri­ma al ci­ne­ma e poi a tea­tro. Ho fat­to te­le­vi­sio­ne, cor­to­me­trag­gi, pub­bli­ci­tà.
Can­to da sem­pre e ho com­po­sto ed ese­gui­to le mu­si­che del­lo spet­ta­co­lo Le­zio­ne da Sa­rah, una gran­de sfi­da at­to­ria­le dato che di­vi­de­vo il pal­co con Ga­la­tea Ran­zi, di­ret­te da Fer­di­nan­do Ce­ria­ni.
Ma sono sta­ta an­che die­tro le quin­te: ho scrit­to e di­ret­to spet­ta­co­li, al­l’oc­ca­sio­ne ho la­vo­ra­to an­che come fo­ni­co e come il­lu­mi­no­tec­ni­co. Nel­lo spet­ta­co­lo Free­ti­me, di­ret­to da Pier­pao­lo Sepe, bran­di­vo un sin­te­tiz­za­to­re del­la Ro­land e can­ta­vo pez­zi rock, tut­to que­sto al Pic­co­lo Tea­tro di Mi­la­no. Ho pub­bli­ca­to un ro­man­zo, La Di­mo­ra de­gli Dèi, edi­to da In­fi­ni­to Edi­zio­ni.
In­som­ma, amo tut­to del­l’ar­te e cer­co di im­pa­ra­re il più pos­si­bi­le, in tut­ti i cam­pi.

– Il tuo ri­cor­do, per­so­na­le o pro­fes­sio­na­le, più emo­zio­nan­te.

Ne ho due: il mio pri­mo red car­pet a Ve­ne­zia, ave­vo solo ven­ti­due anni ed ero as­so­lu­ta­men­te ter­ro­riz­za­ta. Era la pri­ma de I Baci Mai Dati, re­gia di Ro­ber­ta Tor­re, dove re­ci­ta­vo il ruo­lo di una ra­gaz­za non ve­den­te al fian­co di una splen­di­da Do­na­tel­la Fi­noc­chia­ro. Ri­cor­do quel gior­no come uno dei più emo­zio­nan­ti del­la mia vita.
L’al­tro gran­dis­si­mo ono­re è sta­to in­ter­pre­ta­re Ta­mo­ra del Tito An­dro­ni­co al Tea­tro Ar­gen­ti­na di Roma, re­gia di Ga­brie­le Rus­so. Un ruo­lo che so­gna­vo da sem­pre.

– La quar­ta pa­re­te esi­ste? Tu la rie­sci ad ab­bat­te­re?

A vol­te, per ri­de­re, tra col­le­ghi si dice: ba­cia­mi con­tro la quar­ta pa­re­te. Scher­zi a par­te, il Tea­tro che ho vis­su­to è qua­si sem­pre sta­to più di­ret­to, più ri­vol­to espli­ci­ta­men­te allo spet­ta­to­re. E cre­do che sia una gran­de in­no­va­zio­ne, per­ché non re­le­ga più gli spet­ta­to­ri ad un ruo­lo pas­si­vo, anzi li coin­vol­ge in modo at­ti­vo nel­la piè­ce. Cre­do che il tea­tro sia la no­stra ul­ti­ma ago­rà ci­vi­le e lai­ca, un luo­go di co­mu­ni­ca­zio­ne, di cul­tu­ra, di ri­fles­sio­ne.

– Cosa c’è die­tro l’an­go­lo per Mar­ti­na Gal­let­ta? So­gni da rea­liz­za­re?

So­gni ne ho da ven­de­re. At­tual­men­te sto por­tan­do in giro per l’I­ta­lia un mo­no­lo­go scrit­to e di­ret­to da Lu­cia­no Mel­chion­na, Fi­si­ca/​Men­te, che esplo­ra il mon­do emo­ti­vo e an­che pra­ti­co di una cam­pio­nes­sa olim­pi­ca che, da gio­va­nis­si­ma, per­de en­tram­be le gam­be. Da qui il suo per­cor­so este­nuan­te per usci­re dal do­lo­re e dal­la de­pres­sio­ne, fino ad ar­ri­va­re a vin­ce­re di nuo­vo. A ri­na­sce­re. A ri­sco­pri­re amo­re e uma­ni­tà. Sono par­ti­co­lar­men­te fie­ra di po­ter es­se­re tra­mi­te di que­ste pa­ro­le, cosi ne­ces­sa­rie, cosi im­por­tan­ti, cosi te­mu­te, a vol­te, da ri­sul­ta­re di­stur­ban­ti. Cre­do che il ruo­lo del tea­tro sia pro­prio que­sto.
Nel frat­tem­po sto scri­ven­do il mio se­con­do li­bro, un ro­man­zo sto­ri­co am­bien­ta­to nel 1938.
Di­cia­mo che non mi an­no­io.

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